Cos’è il Neuromarketing: e perché il tuo brand non potrà più farne a meno
Quando scienza e psicologia creano superpoteri
a cura di Sara Sansipersico
13/01/24
Fu Ale Smidts, nel 2002, a coniare il termine “neuromarketing”. L’utilizzo di tecniche, teorie e tecnologie neuroscientifiche, applicate al mondo del buon vecchio e caro marketing, ha portato ad una comprensione del cliente capillare, come mai avvenuto prima. Un metodo così efficace che qualcuno ha anche tentato di vietarne l’uso, creando allarmismo e una recente caccia alle streghe… Vediamo perché.
Qualche definizione
Neuromarketing, vale a dire l’applicazione delle tecnologie neuroscientifiche a metodi e modelli del marketing tradizionale.
Stante la definizione di Enciclopedia Treccani, per cui: “Le neuroscienze sono l’insieme delle discipline che studiano i vari aspetti morfo-funzionali del sistema nervoso mediante l’apporto di numerose branche della ricerca biomedica, dalla neurofisiologia alla farmacologia, dalla biochimica alla biologia molecolare, dalla biologia cellulare alle tecniche di neuroradiologia”, ci chiediamo: come possono questi strumenti, utilissimi per la nostra salute, mettersi al servizio del marketing tradizionale?
Medicina, psicologia e marketing
I classici test di mercato sottoposti ai nostri consumatori (sondaggi, interviste, questionari), nei quali si era abituati ad interpretare le statistiche circa la valutazione da parte del cliente di un prodotto, grazie al neuromarketing assumono carattere scientifico.
Se prima alla domanda “quale tra questi due prodotti sceglieresti?”, prodotti differenti, ad esempio, per colore, adesso possiamo associare la misura della variazione del battito cardiaco, la risposta della nostra pelle (sudorazione), i tempi di reazione del nostro feedback verbale. Si possono incrociare i risultati, proporre variazioni del test e utilizzare queste informazioni per prendere decisioni basate su dati ottenuti con metodo scientifico (o quasi, nel senso che un metodo è scientifico se rispetta condizioni di riproducibilità e un gran numero di misure).
In sostanza, se il marketing tradizionale indaga i meccanismi di scelta per i quali un consumatore preferisca o no un certo prodotto, allora la neuroscienza ne è la misura. Può fornire numeri inequivocabili (nei limiti del possibile) relativi alla nostra risposta fisiologica ad uno stimolo.
Consideriamo ad esempio EEG ed fMRI (Elettroencefalogramma e Risonanza Magnetica Funzionale), tecnologie che conosciamo per via del loro eccezionale utilizzo nel campo della medicina: possono misurare le nostre sensazioni, dirci come e quanto reagiamo ad input sensoriali ed emozionali, e costituiscono solo due casi in cui medicina, psicologia e marketing vanno ad integrarsi.
Eye tracking, GSR (Galvanic Skin Response), Test IAT (Test dell’Associazione Implicita) e tantissimi altri tipi di test, forniscono nuovi preziosi dati relativi a cosa scatena il nostro interesse, cosa si aggancia meglio nella nostra memoria, cosa ci fa battere il cuore.
La potenza di uno strumento del genere è evidente, la sua applicazione ed evoluzione continua è ormai un dato di fatto. Ma se i vecchi sondaggi adesso si trasferiscono in laboratorio, regalando superpoteri a chi vende, e rendendo una supercavia chi acquista, è giusto che si arrivi ad un tale livello di conoscenza dei meccanismi di scelta? Può la vendita (di un prodotto, di un candidato…) diventare troppo efficace? È possibile che si giunga ad una sorta di determinismo dell’acquisto, nel quale l’influenza da parte di stimoli indotti prevarrà sulla nostra “opinione” (ammesso che ne abbiamo realmente una e nel caso già in partenza influenzata da innumerevoli fattori)?
Neuroetica e progresso
Ci sarà sicuramente capitato di sentir dire o dire noi stessi che “il marketing è manipolazione”, che “la pubblicità fa il lavaggio del cervello” e allo stesso modo sentire frasi del tipo “non è lo strumento, ma come lo si usa”, o anche “se lo conosci, sai come evitarlo”.
Qualcuno direbbe che influenzare non è manipolare, portando il discorso sul piano della comunicazione e di come il suo fine ultimo sia sempre l’efficacia della trasmissione del messaggio, non della modifica dell’opinione altrui.
La storia ci dice che il progresso non si può fermare, e che anziché opporvisi è sensato sfruttare al meglio ciò che ha da offrirci… Conoscere resta sempre il mezzo migliore per poter interpretare i cambiamenti nel mondo anziché subirli, e ci permette anche di contestualizzare l’innovazione escludendo il sensazionalismo e l’allarmismo.
È certamente vero che strumenti di questa portata, che via via si andranno ad integrare anche all’Intelligenza Artificiale, possono farci sentire vulnerabili e sottocontrollo, ma è altrettanto vero essere ben lontani da una totale influenza sulla nostra capacità di scelta.
Senza cadere in disquisizioni attorno al determinismo, basti pensare che, anche potendo in teoria conoscere la reazione ad ogni singolo stimolo possibile, le variabili e il numero di tali stimoli sono così numerosi a livello sistemico, cioè nel totale dell’evento reale, che allo stato attuale sia impossibile influire su di esso al 100%, annullando la suddetta nostra “opinione”.
Il dibattito è ancora aperto ed interessante. Prima di prendere posizioni polarizzate, l’invito è quello di conoscere ed informarsi da fonti autorevoli, per non farsi travolgere da quella che il Prof. Legrenzi ha chiamato “neuromania”, che rischia di essere più una moda che un argomento di carattere realmente scientifico.
La scienza è bella, quando resta se stessa.